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Lichtung. Luci
A cura di Giacomo Conserva




Arthur Rimbaud: il peso insopportabile*
di Francesca Brencio

28 dicembre 2014





L’angelo e il bambino

E già il nuovo anno aveva esaurito la prima luce,
luce che piace ai bambini, e a lungo richiesta
e presto scordata: sepolto nel sorriso e nel sonno,
tacque il languidetto bambino; lo abbraccia un letto di piume,
e tutt’intorno per terra: strepitosi sonagli,
e conservando il loro ricordo, carpisce sonni felici,
e riceve i doni dei celesti, dopo i doni della madre.
Stira la bocca sorridente, e le labbra appena dischiuse sembrano
invocare Dio: accanto alla testa l’angelo sta sospeso,
chino, e cerca di cogliere i deboli sussurri
del cuore innocente, e pendendo dalla sua visione,
contempla i tratti eterei;
in ammirazione delle gioie della fronte serena,
in ammirazione delle gioie della mente,
e dell’intatto fiore di Noto: «Bambino simile a noi,
vieni, sali con me al cielo, entra nei regni celesti;
abitaci, tu degno delle regge celesti viste nei sogni;
la terra non ti seppellisca, figlio celeste!
Per nessuno c’è fede senza rischi: mai gioie serene
confortano i mortali; dallo stesso profumo del fiore
viene su qualcosa d’amaro, e i cuori commossi sono sollevati
da una triste gioia; mai il piacere gode senza nube
e traspare una lacrima nel riso incerto.
Che? la fronte pura ti marcirebbe a causa di una vita amara,
e l’affanno con le lacrime ti turberebbe gli occhietti azzurri,
e l’ombra del cipresso ti strapperebbe le rose del volto?
Questo no: penetrerai con me nelle regioni degli dei,
e unirai la tua voce ai concerti dei celesti,
spierai gli uomini sotto di te, e le passioni degli uomini.
Vieni: per te il Nume spezza i lacci dell’esistenza.
Ma la madre non sia velata a lutto:
non faccia distinzioni tra feretro e culla;
rilassa il sopracciglio triste, né i lutti
contristino il volto: piuttosto sparga gigli a piene mani:
infatti l’ultimo giorno fu per il puro il giorno più bello».
Ora sta avvenendo questo: avvicina lieve l’ala alla bocca rossa,
recide l’ignaro e porta l’anima del reciso sulle ali azzurre,
con un volo delicato lo trasporta su nelle sedi celesti: ora il piccolo letto
custodisce soltanto delle membra smorte, alle quali tuttavia non è venuta meno la grazia,
ma non lo anima più il respiro e rende la vita.
È trapassato… ma ancora sulle labbra che sanno di baci
Espirano sorrisi, e aleggia il nome della mamma,
e morendo ricorda i doni dell’anno che nasce.
Penseresti che quegli occhi spenti siano socchiusi per un sonno tranquillo;
ma quel sonno, più che mortale per il nuovo onore,
non so perché avvolge la fronte di luce celeste,
e dimostra che egli non è più una radice della terra ma figlio del cielo.
Oh! Con quanta pena la madre pianse la perdita,
e con quante lacrime bagnò il caro sepolcro!
Ma ogni volta che chiude gli occhi nel dolce sonno
dalla rosea soglia del cielo rifulge un bambino,
Angelo, e si diverte a richiamare la dolce madre.
Si scambiano sorrisi: poi, perso nell’aria,
con le ali nivee svolazza attorno alla mamma stordita,
e congiunge quelle labbra con labbrucce divine [1]


Smarrisco il mondo e muoio lo dimentico
l’ho sepolto nella tomba delle mie ossa


George Bataille [2]


I.

«Poeta, Rimbaud lo fu in modo assoluto, perentorio». [3]
Eppure, come ricorda Isabelle Rimbaud, quando — durante la malattia — ella leggeva al fratello qualcosa, «quando capitava un verso, anche uno solo, mi supplicava di saltare. Aveva orrore della poesia». [4]

Arthur Rimbaud morì il 10 novembre del 1891 a trentasette anni; accanto a sé non c’era più traccia di fede nella poesia; [5] eppure di lui rimangono i versi che, come dice Coulon, «sono il suo cervello, il suo sangue e la sua carne direttamente messi sulla carta». [6] Forse è per questo che per capire Rimbaud «bisogna studiarlo e bisogna, soprattutto, amarlo», [7] bisogna, come dice Bonnefoy, «separare la sua voce dalle tante altre voci che ad essa si sono mescolate» [8] e pensare questa attraverso la misura del silenzio.

Cresciuto dalla madre nella piccola Charleville, «una città superlativamente idiota fra tutte le città di provincia», [9] senza la figura paterna accanto, desideroso di fuggire da quel posto per realizzare la libertà libera e con essa i propri sogni, poco più che adolescente, Rimbaud sperimenta la solitudine dell’esistenza «grigiastra». Egli avvertì il suo legame con Charleville come un cappio che lo stringeva, come un luogo che inebetiva le sue capacità e lo confinava fuori dal mondo. Il 2 maggio del 1870 scrive a Izambard:
«Sono spaesato, malato, furibondo, istupidito, stravolto; aspiravo a bagni di sole, a passeggiate senza fine, riposo, viaggi, avventure, bohémienneries insomma». [10]
Qualche mese dopo (il 2 novembre) scrive ancora al suo interlocutore:
«Signore, sono tornato a Charleville il giorno dopo aver lasciato lei. Mia madre mi ha accettato, e io — eccomi qua, l’ozio assoluto. Mia madre non ha l’intenzione, pare, di mettermi in convitto fino al gennaio ’71.[…] Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiastro. Che vuole, mi sono tremendamente incaponito a voler adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose da fare pietà, vero?» [11]
Charleville è quel posto, o «natio borgo», in cui il giovane Arthur si decompone; esso assurge a paradigma di inettitudine e di miseria; nella lettera del 28 agosto 1871 a Paul Demeny scrive:
«Situazione dell’imputato: da più di un anno ho abbandonato la vita normale, per quel che lei sa. Chiuso perpetuamente in questa inqualificabile contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo, raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato, misterioso, rispondendo col silenzio alle domande, alle apostrofi grossolane e cattive, mostrandomi dignitoso nella mia posizione ex-tra-legale, ho finito col provocare risoluzioni atroci, da parte d’una madre inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai berretti di piombo. Mi ha voluto imporre un lavoro — da ergastolano, a Cherleville (Ardennes)! Un posto per il tal giorno, diceva, oppure, quella è la porta. Rifiutavo questa vita; senza dire le mie ragioni: sarebbe stato pietoso. Fino a oggi, sono riuscito a eludere le scadenze. Lei, si è ridotta a questo: augurarsi perpetuamente una mia partenza avventata, la fuga!»
La povertà interiore e la solitudine che Rimbaud avverte nella sua città non fanno che frustrare il suo desiderio di realizzazione, e di libertà. A Théodore de Banville scrisse il 24 maggio 1870 così:
«Maestro, […] ho diciassette anni. L’età delle speranze e delle chimere, dico-no, — e, ragazzo sfiorato dalle dita della Musa — scusi la banalità, — mi son messo a dire la mia fiducia, le mie speranze, le mie sensazioni, tutte le cose dei poeti – che io chiamo: primavera. […] Fra due anni, fra un anno forse, sarò a Parigi. — Anch’io, signori del giornale, sarò Parnassiano! — ho in me qualcosa, non so bene… che vuol salire… — Giuro, caro Maestro, di adorare per sempre le due dee, la Libertà e la Musa». [13]
La povertà e la solitudine di cui si fa qui parola non sono solo certa prigionia e desolazione tipiche di un adolescente, ma sono quelle del poeta, il cui essere è avvertito per di più, come un essere dal «sangue cattivo»:
«Mi è proprio evidente che sono sempre stato razza inferiore. La rivolta, non mi è possibile capirla […]. Non ho mai fatto parte di questo popolo; non sono mai stato cristiano; io sono della razza che nei supplizi cantava». [14]
Sono la solitudine e la povertà di chi comprende l’insoddisfazione proveniente dalla quotidianità, da quella medietà che egli ritiene sterile e grigia di fronte all’ideale, di fronte alle ambizioni. Tutto il mondo a lui circostante — affetti, casa, lavoro — appariva agli occhi di Rimbaud come una condanna.

La vita, nella sua manifestazione immediata, nella sua concretezza era una condanna, quella vita per lui così ordinaria e che imponeva delle esigenze necessarie per la propria sussistenza era il vero limite di fronte al suo essere poeta, o meglio, così egli lo intese, come un limite da superare, da oltrepassare in vista dei «bagni di sole» e dei dettami della Musa. Probabilmente questa insoddisfazione, questo senso di voler comprendere il mondo e il suo senso più intimo rappresentano la prima tappa per l’affermazione di quella condotta di vita che in più di un’occasione fece di Arthur Rimbaud un «povero da strada», [15] un barbone dalle dita fortunate.

La sua ribellione, ovvero quella che chiama la sua ripugnanza contro il dovere imposto e ordinario, si manifesta sin da subito persino nella eccessiva eccellenza di studente, perché le sue ripugnanze producono obbedienza e ipocrisia, nei primi tre anni e mezzo passati all’Istituto Rossat nel periodo 1861-1864, dove vinse tredici premi e si guadagnò undici note di merito. Nella sua ricerca della perfezione scolastica e intellettuale insieme, egli aveva già l’idea di:
«Osservare ogni cosa da vicino, descrivere la vita moderna con coraggiosa precisione e il mo- do con cui essa corrompe il genere umano […] al fine di accelerarne la distruzione». [16]
Osservare il mondo al fine di smascherare tutte le menzogne che esso racchiude ed ergersi nella propria solitudine come un osservatore esterno, un anatomista del vissuto, un nuovo Prometeo che priva il mondo — il suo mondo, Charleville — del senso più intimo, in cui perfino gli affetti sono spogliati di ogni valore.

Tuttavia, Rimbaud sperimentò questa solitudine non soltanto nella sua città, ma anche nel rapporto con la madre; sebbene fosse una donna intelligente e sensibile, M.me Rimbaud non seppe comprendere quel sentirsi abbandonato che Arthur avvertì sia nei suoi confronti sia nei confronti del padre, capitano dell’esercito francese mai ritornato a Charleville dopo il 1860:
«E la Madre, chiudendo il libro del Dovere,
se ne andava, soddisfatta e fiera. Non vedeva
negli occhi azzurri e sotto la fronte piena
di protuberanze, l’anima del suo bambino
in preda alle ripugnanze.
Tutto il giorno sudava obbedienza; intelligente,
molto; eppure qualche nero tic, qualche mania,
indicavano in lui le acerbe ipocrisie.
[…] Pietà! Era amico soltanto di bambini scarni
che, fronti nude, occhi stinti sulle guance,
celando magre dita nere e gialle di fango
sotto vesti vecchiotte e puzzolenti di sciolta,
conversavano con la dolcezza degli idioti!
[…] A sette anni, faceva romanzi sulla vita
del vasto deserto, dove splende una Libertà felice». [17]
Questo medesimo sentimento torna anche altrove, nelle Strenne degli orfani:
«La stanza è piena d’ombra; si ode vagamente
il sussurro di due bambini mesto e dolce
[…] Un’assenza si avverte in ogni cosa…
Non c’è dunque per queste creature una madre,
dal fresco sorriso, dagli occhi trionfanti?
[…] Il sogno d’una madre, è il tiepido tappeto,
il nido di bambagia dove i bimbi acquattati,
dormono un dolce sonno di candide visioni!…
Ma questo, – è un nido senza tepore né piume,
dove i piccoli han freddo, e paura, e non dormono;
nido ghiacciato amaramente al vento…
il vostro cuore ha capito: — bambini senza madre.
Non più la madre a casa! — e assai lontano il padre!… ». [18]
Rimbaud non fu mai un figlio a casa, o meglio, un figlio e un fratello che sentì la casa come dimora e rifugio. Forse il desiderio della fuga nasce proprio da questa presa di coscienza, da questo sentimento che fa avvertire ad Arthur come tutto gli sia estraneo; e forse ha qui origine quel disincanto del mondo che egli sperimenta sin da adolescente, e che frantuma nell’indifferenza delle consuetudini del piccolo villaggio ardennate tutti i suoi sogni e tutte le ambizioni di gloria.

«A ogni essere, parecchie altre vie mi sembrano dovute», [19] scrive in Una stagione in Inferno. Viene da domandarsi quali siano queste altre vie, se è vero che «in un solaio in cui mi chiusero dodicenne ho conosciuto il mondo, ho illustrato la commedia umana». [20] Ma Rimbaud sperimentò la delusione non soltanto a Cherleville, ma anche altrove: Parigi, Londra, l’Abissinia non erano poi così diverse tra loro.



II.

Rimbaud compose L’angelo e il bambino poco più che quindicenne, nel primo semestre del 1869. Sebbene il titolo possa far presumere qualcosa di serafico tale da legare l’immagine dell’angelo a quella del fanciullo, in realtà il contenuto della poesia parla d’altro: tratta dell’ideale che un angelo persegue nel recidere la vita di un bambino. L’interrogativo non è perché un quindicenne scriva di morte, ma come la morte non sia solitudine, ma una condizione privilegiata di relazioni. Ciò che merita di essere considerato non è tanto il discorso che l’angelo pronuncia nel momento che precede la morte del bambino, quanto come il bambino, una volta morto, possa realizzare pienamente il suo rapporto con la madre. L’immagine finale dei sorrisi e dei baci racchiude molto della condizione affettiva ed esistenziale del giovane Rimbaud.

Proprio nell’inversione del significato che la vita e la morte o che la solitudine e la comunicazione rivestono in questa lirica si compie il miracoloso, il serafico — e non è un caso che il giovane Rimbaud scelga l’immagine dell’angelo. In questo senso l’opera poetica di Rimbaud fin dall’inizio va al di là del cliché del poeta maledetto, del rivoluzionario, del bohemien. Una volta sperimentata la vita come assenza di pienezza, rimane solo la morte come realizzazione di questa, o meglio, come custode di una promessa che attende il suo soddisfacimento.

Se è valida l’affermazione di Cioran per la quale Rimbaud è un ingegno che si è distrutto per aver voluto dare un senso alla propria esistenza [21], allora in questa sua distruzione egli sperimenta la vertigine del proprio essere a metà. Perciò, come ha giustamente osservato Camus, possiamo dire che
«la grandezza di Rimbaud non sta nei primi gridi di Charleville né entro i traffici dell’Harar ma prorompe nell’attimo in cui, dando alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che mai le sia stato conferito, dice ad un tempo il suo trionfo e la sua angoscia, la vita assente al mondo e il mondo inevitabile, il grido verso l’impossibile e la realtà ruvida da stringere, il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere. Nel momento in cui, portando in sé l’illuminazione e l’inferno, insultando e salutando la bellezza, ha fatto di una contraddizione irriducibile un duplice e alterno canto, è poeta della rivolta, e il massimo». [22]
Leggendo I deserti dell’amore si ha la sensazione che mai fu scritta da lui poesia più triste, mai fu sentita in modo così radicale la sua condizione di perdita della purezza della vita, di solitudine, di mancanza di comunione — corporale prima che spirituale. L’opera inizia dicendo:
«Questi scritti sono di un giovane, giovanissimo uomo, la cui vita si è sviluppata un po’ dappertutto; senza madre, senza paese, noncurante di quel che è noto, in fuga davanti a ogni forza morale, come già lo furono molti uomini giovani, e meritevoli di compassione». [23]
Poco oltre continua:
«Io ero abbandonato, in quella casa di campagna senza fine: a leggere in cucina, a far asciugare davanti agli ospiti il fango dei miei vestiti, alle conversazioni in salotto: mortalmente agitato dal mormorio del latte la mattina e dalla notte d’un secolo fa […]. A tutto ciò piangevo enormemente. Infine sono sceso in un luogo pieno di polvere, e, seduto su una catasta di legna, ho lasciato che si esaurissero insieme a quella notte tutte le lacrime del mio corpo». [24]
E nel Battello ebbro scrive:
«Ma è vero, ho pianto troppo! Son desolanti le Albe. Ed è atroce ogni luna, ed è amaro ogni sole». [25]
Queste parole ricordano i versi di Orazione della sera dove si legge:
«Il mio cuore triste è a volte alburno
ove sanguina il cupo giovane oro dei succhi». [26]
Il tema è sempre il medesimo: l’impossibilità di raggiungere quella comunanza tanto agognata, quella pienezza irrisolta il cui orizzonte fugge in una fuga eterna. [27]



III.

Solitudine è perciò il venir meno di tutto ciò che è oggetto di desiderio, di amore, di appartenenza. La prima solitudine fu quella della madre, la seconda quella di Dio e della Vergine, [28] la terza quella dell’amore, la quarta quella della poesia.

In questa condizione, Rimbaud consegnò al fallimento la propria esistenza — per eccesso di orgoglio, di coraggio, perché si può essere falliti anche per eccesso, non solo per difetto — rendendola poco più che un malinteso. [29] E il suo fallimento fu triplice: fu quello dell’incapacità di farsi veggente — così come si era proposto nelle lettere a Izambard e Demeny del 1871 [30] —, quello della carità e della pietà, che segnavano le poesie della giovinezza, e infine quello dello spirito di verità. Soprattutto quest’ultimo sarà ciò che egli denuncerà in modo implacabile nella Stagione in Inferno, la sua sregolatezza programmatica di tutti i sensi che avrebbe dovuto condurlo a comprendere la verità, a farsi verità dopo aver partecipato della visione.

Tuttavia, in cosa altro mai può riposare l’essenza della poesia e della sua verità, osserva Bonnefoy, «se non nella confessione del fallimento» [31] e nel riconoscere che l’affannarsi del poeta per cercare la realtà nella sua essenza lo spinge proprio nella direzione opposta di questa ricerca, cioè nel perdere la realtà e con essa se stesso? Cercare la purezza della vita, l’eternità, attraverso il loro opposto conducono Rimbaud a una perdita di esse:
«Rivoltarsi contro la loro presente miseria, ingiuriarla con il pretesto dell’Ignoto, essere odio prima di essere amore, è davvero questo il mezzo per ristabilire la felicità e l’amore originari? Non è forse escludersi ancora un po’ di più dal grande festino rifiutato?» [32]
Solo attraverso la presa di coscienza del proprio fallimento risulta chiara l’espressione:
«Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. — E l’ho trovata amara. — E l’ho insultata». [33]
Ormai Rimbaud ha consapevolezza non solo di questo suo fallire, ma di come sia impossibile attuare la riconciliazione: del passato col presente, di Charleville con Londra, di se stesso con Dio, della poesia con la vita. È la coscienza dell’impossibile che si apre a lui nei suoi multiformi aspetti. «Conosco ancora la natura? Mi conosco? – Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Gridi, tamburo, danza, danza, danza, danza!» [34]

Impossibile è la libertà libera, impossibile la salvezza, impossibile la poesia senza il pensiero della morte.
«Il vecchiume poetico era per buona parte nella mia alchimia del verbo. Mi abituai all’allucinazione semplice […]. Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole! Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Stavo in ozio, preda di una febbre pesante […]. Dicevo addio al mondo in una sorta di romanze […]. Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande intiepidite. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco […]. Divenni un’opera favolosa: vidi che in tutti gli esseri c’è un destino di felicità: l’azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervarsi.» [35]
Tuttavia, la coscienza dell’impossibile e di come esso rappresenti il limite ultimo verso il quale necessariamente egli tende, non lo irretiscono, non lo imprigionano. Rimbaud vuole, ancora e comunque, ciò che gli fu negato, ciò che il mondo gli ha negato: la purezza, l’eternità, la vita e — soprattutto — la pienezza. Vuole la felicità, la vita chiara, quel raggio di luce che fa cantare la statua di Memnone. Così, per ritrovare quella promessa, egli sceglie «le corrispondenze».
«È ritrovata. che? — l’Eternità.
È il mare andato via
col sole.
Anima sentinella,
Mormoriamo l’assenso
della notte di niente
e del giorno di fuoco.
Dai suffragi umani,
dai comuni slanci
tu là ti liberi
e voli a seconda.
Poi che da voi sole,
braci di raso,
esala il Dovere
senza un: finalmente.
Là niente speranza,
non c’è un orietur.
Scienza con pazienza,
il supplizio è certo.
È ritrovata.
Che? — l’Eternità.
È il mare andato via
col sole.» [36]
L’eternità è il mare andato via col sole — in un’altra stesura dirà «sciolto nel sole»; [37] ora è nel lampo dell’analogia che si compie la promessa, il ritorno alla purezza, la realizzazione della pienezza. Tuttavia, in questo lampo in cui sembra che l’unione venga realizzata, che la promessa venga soddisfatta e con essa il peso dell’attesa alleggerito dal compimento, il poeta non dimentica lo scarto che l’impossibile genera e come, ancora una volta, la pienezza non sia una meta a portata di mano: di qui l’incapacità della sintesi, di essere sintesi. «In quel periodo» scrive nelle Minute «era la mia vita eterna, non scritta, non cantata, — qualcosa come la Provvidenza nella quale si crede e non si canta.» [38] Ancora una volta non c’è possibilità di nutrire l’illusione e non c’è possibilità per la realizzazione della comunione, della pienezza. Accettare tragicamente questo scarto è l’unico modo che può fare dell’eternità un momento della vita, che può rendere «la vita chiara», almeno per un attimo, una tenera certezza che può far intuire il ritrovamento di quella purezza originaria tanto desiderata.

Si può forse affermare che nel suo cammino Rimbaud opera una sola scelta: la via deludente della distruzione, l’abuso delle droghe per comprendere che esse non sono tanto una sostanza quanto una rêverie, non un avvicinamento all’essere quanto una rassegnata passività. [39] E viene imposto alla parola il peso di un destino che non può che giungere al silenzio, e Rimbaud consegnò ad esso la parte più importante della sua poetica. Spesso, infatti, solo il silenzio rende ragione di un’intera esistenza di cui non è possibile comprendere il senso con le parole.

«Ritrovare la purezza non nella coscienza ma in ciò che la nega: questo è stato il tentativo di Rimbaud.» [40] Una stagione in Inferno «significa ciò che dice, alla lettera e in ogni senso». [41] Non si tratta di una sofferenza gratuita, ma necessaria come altrettanto necessaria è la discesa agli inferi «da cui tornerà redentore». [42] In de profundis Rimbaud torna dagli inferi; egli ha visto e la visione lo ha reso partecipe; la visione si è offerta a lui nella sua materialità, nelle sue manifestazioni fisiche; l’Inferno che Rimbaud ha esperito si è presentato al poeta nella vita; per questo egli dice:
«Mi sarà lecito possedere la verità in un’anima e un corpo». [43]
Così la solitudine e quella infelicità e tristezza che lo hanno accompagnato nella vita sono diventate in Rimbaud una ricerca di senso, sebbene distruttiva. Infatti, anche laddove vi è una distruzione è possibile rintracciare un senso per quella stessa distruzione, un senso disperato ma pur sempre senso.

Questo Rimbaud lo sapeva, «piccola rosa in un giardino e metafora di Dio». [44]


* Questo contributo è stato scritto nel 2002 ed è pubblicato, nella medesima veste in cui qui si ripropone, nel primo numero della rivista Davar, curata dalla Prof.ssa Anna Giannatiempo Quinzio, nel Novembre 2003 per Diabasis Edizioni [pp. 178-187]. Le riflessioni su Rimbaud nate in quella sede, con tutti i limiti del mio percorso filosofico d’allora, hanno trovato un ulteriore approfondimento nella monografia filosofica su di lui che, dopo rocambolesche vicende editoriali, spero poter pubblicare in Italia entro l’anno.

[1] A. Rimbaud, “L’ange et l’enfant”, in A. Rimbaud, Poesie latine, in Opere, a cura di D. Grange Fiori, Mon- dadori, Milano 1975, p. 424 sgg.
[2] G. Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile, trad. it. a cura di A. Zanzotto, Rizzoli, Milano 1970, p. 99.
[3] V. Segalen, Il doppio Rimbaud, trad. it. a cura di F. Pietranera, Rosellina Archinto, Milano 1990, p. 5.
[4] Ibidem, p. 50.
[5] «Vostro fratello ha la fede, figliola che mai ci avevate detto? Ha la fede, e anzi non ho mai visto una fede di qualità simile!» scrive Isabelle Rimbaud alla madre riportando le parole che il sacerdote le disse nel mo- mento della confessione di Arthur prima della morte (cfr. Isabelle Rimbaud alla madre, in A. Rimbaud, Opere, cit., p. 629). Tuttavia, come sottolinea Yves Bonnefoy a proposito della conversione in extremis di Rimbaud alla religione cattolica, «per un’anima incapace di dimenticare la promessa di Gesù, la conversione di Marsiglia non è stato il primo impeto di speranza. Ma tutte le altre volte, finché Rimbaud fu cosciente, Dio sembrava non rispondere. Spesso detestato per la morale da lui avallata, atteso talvolta ingordamente, nella Saison en enfer o nelle Illuminations, il Dio cristiano fu sempre un assente, e se l’opera di Rimbaud può avere valore di testimonianza, lo è davvero e soltanto di quella morte del divino che anche Nietzsche ha descritto. Si faccia pure, se lo si desidera, della conversione di un morente il segno del risveglio di Dio. Ma che non si cerchi la sua presenza in una poesia che spesso ha tentato di provocar- lo senza incontrare null’altro che il suo silenzio». Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, trad. it. a cura di G. Caramore, Marietti, Casale Monferrato 1988, p. 114.
[6] F. Liuzzi, Arturo Rimbaud, Formiggini, Roma 1926, p. 9.
[7] Ivi, p. 8.
[8] Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 1.
[9] A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, cit., p. 440.
[10] Ivi, p. 441.
[11] Ivi, p. 445.
[12] A. Rimbaud, “Lettera a Paul Demeny”, in Opere, cit., p. 464 sgg.
[13] A. Rimbaud, “Lettera a Théodore de Banville”, in Opere, cit., p. 439 sgg.
[14] A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Opere, cit., pp. 217 e 221.
[15] Si ricordi come Mathilde Verlaine rimase scandalizzata dalla scoperta dei pidocchi sul cuscino di Rimbaud quando egli era ospite presso la casa dei coniugi Verlaine, e facendone parola al marito, egli rispose che Rimbaud amava portarli con sé per poterli attaccare ai preti (la testimonianza è riportata in G. Robb, Rimbaud, trad. it. a cura di M. Mascarino, A. Palladino, Carocci, Roma 2002, p. 115). Anche il cognato di Verlaine, desideroso di incontrare il futuro grande poeta trovò «un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro» (Cfr. G. Robb, Rimbaud, cit., p. 119).
[16] Biglietto di Arthur Rimbaud a Delahaye, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 61.
[17] A. Rimbaud, “I poeti di sette anni”, in Opere, cit., p. 92 sgg.
[18] A. Rimbaud, Le strenne degli orfani, in Opere, cit., pp. 5-7.
[19] A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 251.
[20] A. Rimbaud, Illuminazioni, in Opere, cit., p. 301.
[21] Cfr. E. M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. it. a cura di L. Colasanti, C. Laurenti, Adelphi, Milano 1984, p. 24.
[22] A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, trad. it. a cura di L. Magrini, Bompiani, Milano 2000, p. 717 sgg.
[23] A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 195.
[24] A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, cit., p. 197 sgg.
[25] A. Rimbaud, “Battello ebbro”, in Opere, cit., p. 149.
[26] A. Rimbaud, “Orazione della sera”, in Opere, cit., p. 81.
[27] A. Rimbaud, “Credo in Unam”, in Opere, cit., p. 19.
[28] Cfr. A. Rimbaud, “Le prime comunioni”, in Opere, cit., pp. 131-141.
[29] P. Claudel, “Prefazione a Arthur Rimbaud, Oeuvres”, in A. Rimbaud, Opere, cit., p. 730.
[30] Cfr. A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, e “Lettera a Paul. Demeny”, in Opere, cit., p. 448 sgg. Sul tema del poeta veggente in Rimbaud cfr. inoltre G. Robb, Rimbaud, cit., pp. 84-96; G. Deleuze, Critica e Clinica, trad. it. a cura di A. Panaro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 45-48.
[31] Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 48.
[32] Ibidem, p. 47.
[33] A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., p. 211.
[34] A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, cit., p. 221.
[35] A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., p. 243 sgg.
[36] A. Rimbaud, “L’eternità”, in Opere, cit., pp. 167-169.
[37] Cfr. A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., pp. 249-251. Qui la poesia dice: «È ritrovata! / Che? L’eternità. / È il mare sciolto / nel sole. / Anima mia eterna, / osserva il tuo volto benché / la notte sia sola / e il giorno sia in fiamme. / Dunque ti liberi / da umani suffragi, / da slanci comuni! / Tu voli a seconda… / – Mai la speranza. / non c’è un orietur. / Scienza e pazienza, / certo è il supplizio. / Non più domani, braci di raso, Vostro ardore, è il dovere. / È ritrovata! Che? – l’Eternità. / È il mare sciolto / nel sole».
[38] A. Rimbaud, “Età dell’oro”, in “Minute per Una stagione in Inferno”, in Opere, cit., p. 277.
[39] Cfr. Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 37.
[40] D. Ropps, Rimbaud, Morcelliana, Brescia 1935, p. 62.
[41] Lettera di Isabelle Rimbaud, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 215.
[42] Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 29.
[43] A. Rimbaud, “Addio”, in Una stagione in Inferno, cit., p. 265.
[44] D. Ropps, Rimbaud, cit., p. 170.


Étienne Carjat, Rimbaud, ottobre 1871



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